L’avventura di Don Giovanni Bosco
Proviamo ad immaginare la Torino di 150 anni fa, presa dalla febbre della prima industrializzazione. Arrivavano per lavorare nelle fabbriche, sparse lungo tutto il corso della Dora, migliaia e migliaia di immigrati. Il fiume infatti era l’energia elettrica del tempo e alimentava i mulini che azionavano le macchine di decine e decine di fabbriche. Nel 1850 si parla addirittura di 50.000 o 100.000 immigrati.
Gli immigrati non arrivavano dal Sud Italia e certamente non da fuori Italia, arrivavano, più semplicemente, dalla provincia di Asti.
I problemi erano enormi: la città era invasa da bande di ragazzi che si offrivano per tutti i lavori possibili (ambulanti, lustrascarpe, fiammiferai, spazzacamini, mozzi di stalla, garzoni…) e non sono protetti da nessuno. Si formavano vere e proprie bande che infestavano i sobborghi, soprattutto nei giorni festivi in cui non si lavorava.
In quegli stessi anni, arrivava dalla provincia di Asti anche un giovane prete, Don Giovanni Bosco; proveniva da una famiglia poverissima, dove aveva sofferto la fame e le privazioni, come tutti.
È un prete un po’ particolare, che negli anni di studio ha trovato tempo – per mantenersi o per passione – di fare il pastore, il giocoliere e il saltimbanco, il sarto, il fabbro ferraio, il barista e il pasticciere, il segnapunti al tavolo deI biliardo, il suonatore di organo e di spinetta. Più avanti farà anche lo scrittore e il compositore di canzoni.
Fin da subito, comincia ad adoperarsi per cercare di risolvere le situazioni di estrema difficoltà che gli si presentavo sotto gli occhi con una dedizione, una forza ed un coraggio inimmaginabile. Tanto da stupire gli stessi uomini di chiesa!
I suoi ragazzi lo ricambiavano con lo stesso affetto e la stessa dedizione.
Un episodio lo rivela sufficientemente. Nel luglio deI 1846 egli ebbe uno sbocco di sangue e svenne, dopo una massacrante giornata passata all’Oratorio, dove oggi sorge la basilica di Santa Ausiliatrice.
In breve: è in fin di vita. Resta otto giorni tra la vita e la morte.
In quegli otto giorni ci furono ragazzi che, sotto il sole rovente lavorando sulle impalcature, non toccarono una goccia d’acqua, per chiedere a Dio la sua guarigione. Si davano il cambio notte e giorno al Santuario della Consolata per pregare per lui, dopo aver fatto le consuete dodici ore di lavoro. Alcuni promisero di recitare il rosario per tutta la vita. Altri di restare a pane e acqua per mesi, per un anno, qualcuno per sempre.
I medici dicevano che quel sabato don Bosco sarebbe certamente morto. Gli sbocchi di sangue erano ormai continui, Don Bosco guarì, impensabilmente.